Dagli Specnaz ai campioni olimpici, l’allenamento sovietico era un sistema scientifico per forgiare corpi e menti d’acciaio.
Durante la Guerra Fredda, mentre il mondo osservava le tensioni tra USA e URSS, nell’ombra si sviluppava un approccio scientifico all’allenamento fisico che avrebbe segnato decenni di preparazione militare e sportiva. Il sistema sovietico non puntava all’estetica: l’obiettivo era resistere, combattere, vincere. Un modello costruito attorno a dati, esperimenti sul campo e una struttura rigorosa, applicato alle forze speciali, agli atleti olimpici e ai campioni nazionali.
James Pieratt, atleta ibrido e autore di Wild Hunt Conditioning, spiega che “i sovietici non si allenavano per apparire, ma per sopravvivere alla guerra”. Ogni esercizio, ogni fase del programma aveva uno scopo preciso: potenziare la resistenza, aumentare la forza esplosiva, testare i limiti del corpo umano.
Ma questo rigore aveva anche un’ombra. I risultati, pur reali, erano spesso supportati da programmi di doping sponsorizzati dallo Stato, soprattutto ai vertici dello sport. Resta però innegabile l’impatto del modello sovietico su tutta la moderna scienza della performance.
Dalle kettlebell ai lanci esplosivi: la forza funzionale sovietica
Negli anni ’70 e ’80, osservando gli Specnaz, le truppe d’élite dell’URSS, emerge un’immagine chiara: corpi temprati, riflessi pronti e un addestramento che andava ben oltre il muscolare. Questi soldati si sottoponevano a sessioni che combinavano military press, Turkish get-up, swing con kettlebell e camminate del contadino (farmer’s walk).

Ma il vero salto di livello arrivava con esercizi come il lancio con tripla estensione, un gesto esplosivo che richiede coordinazione totale, dal tallone alla punta delle dita. “È uno swing con kettlebell che passa sopra la testa e si lancia dietro. Un movimento integrale, quasi primordiale”, racconta Pieratt.
Allenarsi all’aperto, spesso a temperature sotto zero, sollevando pietre, trascinando tronchi o saltando nel fango, serviva a simulare scenari di battaglia. Non era solo questione di muscoli, ma di grinta. Tutto veniva progettato per potenziare il corpo e la mente.
Volume, dolore e consapevolezza: gli altri pilastri del metodo sovietico
Un altro cardine era la callistenia, l’allenamento a corpo libero. Pieratt sostiene che l’alta intensità e l’alto volume servissero a resistere all’acido lattico, preparandosi a sostenere sforzi prolungati. “Se senti bruciare, significa che stai lavorando. E se vuoi sopravvivere a un combattimento, devi lavorare di più”.
Lo stress psicologico era parte integrante della formazione. Gli Specnaz si allenavano bendati, in condizioni di privazione del sonno, con proiettili veri, in simulazioni di guerra. La tolleranza al dolore non era un bonus: era il requisito minimo.
Parallelamente, scienziati come Yuri Verkhoshansky rivoluzionavano l’allenamento moderno. A lui si deve lo sviluppo della pliometria, oggi adottata da atleti di ogni disciplina. Il suo depth jump – salto da un box, atterraggio e nuovo salto – ha trasformato il modo in cui si lavora su reattività ed esplosività. Era l’inizio del concetto di allenamento neuromuscolare ad alto impatto.
Anche la consapevolezza spaziale veniva potenziata. I paracadutisti sovietici praticavano esercizi acrobatici, capriole, salti sincronizzati. Non era spettacolo: serviva per migliorare la lettura del corpo nello spazio, fondamentale in combattimento e manovre aeree.
E poi c’erano le arti marziali da battaglia. Il Sambo da combattimento univa tecniche della lotta russa, colpi da striking e prese del judo giapponese. Ma la versione praticata sul campo dai soldati non era sportiva. Prevedeva colpi alla gola, proiezioni su terreni duri e simulazioni di scontro letale. Un metodo impossibile da replicare in una palestra normale.